Nata in Argentina dopo il XVII Incontro Nazionale delle Donne, nel 2003, la corrente femminista Pan y Rosas è oggi una realtà di lotta attiva in Brasile, Cile, Messico, Stati Uniti, Bolivia, Francia, Uruguay, Venezuela, Spagna e altri paesi, tra cui l’Italia, dove una sezione del movimento internazionale è stata lanciata nel 2019.
Fondato dalla militante Andrea D’Atri, Pan y Rosas trae il suo nome dal famoso sciopero portato avanti – soprattutto dalle donne – nelle industrie tessili di Lawrence, in Massachustess, nel 1912. All’epoca, il grido «la lavoratrice deve avere il pane ma anche le rose» diventò una parola d’ordine, pronunciata per la prima volta nel corso di un suo discorso dalla leader femminista e socialista Rose Schneiderman e, quindi, ripresa in una poesia di James Oppenheim, destinata a diventare il testo della famosa canzone scritta da Mimi Fariña nel 1974 e, da lì, l’inno di lotte combattute in tutte le parti del mondo.
Ciò che era valido nel 1912, ancora oggi è un traguardo da raggiungere. Perché se il pane rappresenta la necessità di un giusto salario, le rose alludono a migliori condizioni lavorative e a una vita degna. Proprio per questo la corrente femminista Pan y Rosas, nel suo manifesto internazionale, considera la lotta contro l’oppressione delle donne una lotta anticapitalista, finalizzata all’abbattimento del sistema economico patriarcale che caratterizza lo stato di cose presente.
Da questo punto di vista, il femminismo socialista si contrappone al femminismo di matrice liberale. Come ha ben spiegato Andrea D’Atri in un’intervista, infatti: «Se si traccia una linea retta mettendo in fila tutta la popolazione mondiale, dalla persona più ricca, posta all’inizio della linea, fino al più povero, collocato alla fine della stessa, ci si accorge che le prime 8 persone possiedono una ricchezza paragonabile a quella che – partendo dalla coda della fila immaginaria – serve a 3,5 miliardi di persone povere per sopravvivere. È una brutale disuguaglianza che mostra soltanto uno dei volti del capitalismo. Ma se guardiamo al genere di quella popolazione messa in fila, scopriamo che le 8 persone più ricche del pianeta sono uomini. E il 70% delle più povere sono donne. Ha senso, allora, andare a combattere per far sì che ci siano 4 donne all’inizio della linea e il 50% degli uomini alla fine? Oppure si deve lottare per porre fine a questo sistema capitalista e patriarcale che costruisce tali brutali disuguaglianze? Il femminismo liberale si preoccupa del tetto di cristallo. Noi vogliamo dare l’assalto al cielo».