Ylenia Sina, “Il canaro, storia di una vendetta: in un romanzo il racconto mai scritto”, Romatoday.it, 14 giugno 2018

Ylenia Sina, “Il canaro, storia di una vendetta: in un romanzo il racconto mai scritto”, Romatoday.it, 14 giugno 2018

 

Un fatto di cronaca cruento, di quelli che la gente consuma voracemente sui giornali o in tv. Il racconto di una storia di vendetta che da una ricerca durata sei anni, tra evidenze processuali ed enfasi mediatica, interviste ai protagonisti e una sistematica raccolta di documenti, a trent’anni di distanza può dirsi ormai materia da epica popolare.

Luca Moretti, autore de ‘Il Canaro – Magliana 1988: storia di una vendetta’, edito da Red Star Press, racconta a Romatoday il suo ultimo lavoro. Per una coincidenza fortunata il libro è stato pubblicato proprio mentre sul tappeto rosso di Cannes il ‘Dogman’ di Matteo Garrone, ispirato alla stessa vicenda, riscuoteva successo internazionale. Venerdì 15 giugno il libro verrà presentato a Ostia presso la libreria Ubik di via dei Misenati 44ore 19

Il romanzo prende le mosse da un fatto di cronaca che scosse una Roma, e un’Italia, che tardavano ad uscire dagli anni ’80: il 19 febbraio del 1988, in una discarica non molto distante da via della Magliana,  viene ritrovato il corpo carbonizzato e mutilato di un ex pugile originario del quartiere, Giancarlo Ricci, 27 anni. Per l’omicidio viene condannato un toelettatore di cani, Pietro De Negri, sardo trapiantato nella capitale, che i giornali hanno consegnato alla storia con il soprannome de ‘Il Canaro’. Da carnefice a vittima, il movente che De Negri ricostruisce in un memoriale di qualche pagina scritto in carcere è una storia fatta di prepotenze e soprusi. Una giusta vendetta che deborda nel racconto, trasfigurato dalla cocaina, in una tortura senza precedenti poi smentita dalle perizie del medico legale. Moretti scava in questa storia e completa il memoriale. Svela quella storia che il Canaro, forse nella speranza di essere dimenticato, non ha mai portato a termine. 

Partiamo dalla fine. Il libro è stato pubblicato proprio mentre il film veniva presentato a Cannes. Libro e film, però, non sono collegati. Dove nasce il tuo lavoro?

Il Canaro è un libro a cui stavo lavorando da tanto tempo, almeno dal 2012. Questo fatto di cronaca cruento mi aveva colpito tantissimo. La differenza con il film è sostanziale. Il film è bello proprio perché fiabesco, distaccato dalla realtà, fotografico. Io, invece, racconto questa vicenda con le armi di chi scrive crime o noir, le armi di uno scrittore che conosce la periferia. Estetizzare un fatto di cronaca simile per me sarebbe stato difficile. 

Ti sei confrontato con Garrone sulla vicenda?

Sì, ci siamo incontrati qualche volta. Forse un punto di contatto centrale tra i due lavori c’è: entrambi siamo arrivati al punto di non sapere come chiudere questa storia. Garrone ha risolto gli ostacoli che non gli permettevano di portare a termine la narrazione individuando una persona: l’attore protagonista. L’aver trovato l’assassino. Al tempo non mi disse che era Marcellino del Cinema Palazzo Occupato (Marcello Fonte, ndr), che per quel ruolo ha vinto il premio per miglior attore a Cannes. Io, invece, avevo il problema della verità e l’ho risolto con la voce del protagonista. 

Ne esce un romanzo in prima persona: la conclusione di quel memoriale che Pietro De Negri aveva iniziato a scrivere in carcere. Perché questa scelta? 

Era l’unico modo per affrontare il problema della verità. Come si fa a raccontare una storia che si è imposta all’onore della cronaca ed è entrata nell’epica collettiva con elementi che sappiamo non essere veri? Nel suo memoriale De Negri raccontò particolari poi smentiti dai medici legali: le torture inflitte al Pugile mentre era vivo, la gabbia entro la quale era stato rinchiuso, l’assunzione di 50 grammi di cocaina. Ma anche la madre del Pugile, che ancora oggi sostiene che il Canaro non abbia potuto uccidere da solo suo figlio. L’unico modo per raccontare questa storia era non tentare di interpretare la realtà. Questo lo fanno i preti, le guardie e i giornalisti. Il compito dello scrittore, a mio modesto avviso, è invece quello di fondare la realtà. Per tanti anni ho sostenuto che la narrazione in prima persona era da scrittore da diario nel cassetto. In questo caso, parlare con gli occhi dell’assassino, continuare il suo memoriale, si è rivelato l’unico modo per poter raccontare questa storia. Anche se mettersi negli occhi di una persona che ha ucciso, di una persona che oggi preferirebbe farsi dimenticare, è stato doloroso. 

Questa storia ha un rapporto scivoloso con la verità: il memoriale poi smentito dalle perizie, le convinzioni che la madre del Pugile ha riferito più volte alla stampa, gli stessi articoli di giornale che hanno dato risalto a particolari che poi si sono rivelati oggettivamente non veritieri. Come hai lavorato con la materia di questa verità?

Qui dobbiamo aprire un discorso sull’epica popolare. Quello del Canaro è diventato uno dei più grandi racconti popolari contemporanei di Roma. Una verità ben lontana da quella ‘chimica’ della medicina legale, per la quale Giancarlo Ricci è morto 40 minuti dopo aver ricevuto un colpo in testa e le torture sono semplicemente mutilazioni inflitte ad un corpo già morto. È vero che la guerra di Troia è scoppiata per l’amore verso una donna? Dal punto di vista narrativo sì. Quella di cui parliamo ora è la verità che vuole il Tevere, che vogliono le persone di Roma, che voleva l’Italia degli anni ’80 e che i giornalisti hanno imposto trasudandola da quelle sette pagine di memoriale con titoli memorabili. ‘Il Bronx in riva al Tevere’. ‘Torturato sette ore e poi bruciato’. ‘Non morirà di vecchiaia’. La stessa parola ‘cauterizzazione’, termine medico che indica la cura di ferite sanguinanti attraverso la loro bruciatura, è entrata nel vocabolario degli italiani dopo quella vicenda. In questo racconto, poi smentito dai medici legali, il Canaro avrebbe cauterizzato le ferite del Pugile per prolungarne le sofferenze. Questa narrazione truce si riverbera ancora oggi. 

Anche il nome ‘Il Canaro’ è stato inventato dai giornalisti. 

Lo inventò Il Messaggero. Lo stesso giornale sul quale è stata pubblicata l’intervista rilasciata subito dopo la scarcerazione di Pietro De Negri perché ritenuto incapace di intendere e di volere al momento del crimine. Quel giorno la giornalista Mariella Regoli lo stava aspettando fuori da Rebibbia. Si offrì di riaccompagnarlo alla Magliana e lui, nel tragitto di questo viaggio in auto, si lasciò andare. Rilasciò dichiarazioni come: “Alla Magliana metteranno i cartelli in mio sostegno”. Oppure: “Lo rifarei”. Dichiarazioni che, di fatto, ne hanno determinato la seconda carcerazione. 

Se il Canaro è la voce del libro e i giornalisti appaiono come un malvagio personaggio collettivo, sono le donne ad avere un ruolo da protagoniste. La madre del Pugile, recentemente, è tornata a parlare sui giornali criticando il film e chiedendo un cospicuo risarcimento per come è stata costruita la figura che ispirata dal figlio. Cosa ne pensi?

Le tre donne sono certamente protagoniste. In ordine di grandezza: la figlia, la moglie e la madre. A Troia si sono ammazzati per Elena, alla Magliana per gli occhi di una bambina di otto anni. Si tratta di un processo epico importantissimo. Anche la figura della madre del Pugile, che nel libro chiamo ‘madre tortura’, al tempo fu una figura centrale. Alla Magliana la conoscevano tutti: si affacciava alla finestra del suo appartamento di via Vicopisano e richiamava il figlio a casa. Lei potrebbe prender parte al coro di una tragedia greca, lei si è torturata ad ogni processo ascoltando il memoriale con le torture e le mutilazioni che il Canaro sosteneva di aver inflitto al figlio. 

Nel tuo libro il legame tra questa storia e Roma è molto stretto. Quello che emerge è il racconto di un pezzo di periferia romana di quegli anni. La storia di una persona che, intravisto un finale senza redenzione, ha ammazzato una figura che non gli permetteva di lasciarsi alla spalle il passato. 

Il Pugile rappresenta l’ostacolo per un ‘non romano’ di essere accettato a pieno da questa città. Un modo per dire che Roma è in grado di mangiarti e sputarti via. Una forma di razzismo di tipo regionale e di forza centripeta per cui Roma sconfigge tutti coloro i quali cercano di entrarci. Uno dei motivi per cui si creò quel rapporto di soggezione e accondiscendenza tra il Canaro e il Pugile è proprio questo: il Canaro veniva dalla Sardegna e anche se la Magliana era un quartiere nuovo, dove tutti potevano sperare di diventare qualcuno, i romani erano già lì, con le loro bische. Questo è il modo in cui Roma tratta i suoi figli neri. Il Pugile non ha permesso al Canaro di indigenizzarsi nella nuova terra. 

Venerdì 15 giugno presenterai questo libro a Ostia che, oltre ad essere il quartiere in cui vivi, è ormai anche il simbolo della periferia della capitale. Come si racconta ‘Il Canaro’ a Ostia?

In questo libro il discorso sulle periferie è centrale e andrebbe affrontato senza quell’attenzione voyeuristica per il sangue ma concentrandosi sul loro protagonismo. In questa vicenda un occhio superficiale legge solo una storia di vendetta. Da un punto di vista più profondo è invece la storia di una periferia che tardava a risvegliare il suo spirito. La storia della difficoltà di un romano da sette generazioni che si confrontava con un sardo nella capitale da pochi anni. C’è inoltre la storia delle periferie che vivono la violenza come stile di vita. Oggi Ostia, da un certo punto di vista, è una nuova Magliana. Negli anni ’80 la Magliana era quella terra magica al di sotto del livello del Tevere Infame, senza servizi e con un solo bus che ti portava a Roma, come se Roma fosse un altro posto. Oggi per Ostia la Magliana viene vista come il centro. In questo libro, poi, Ostia è anche protagonista. Dove va a finire il Tevere Infame, coagulatore di sangue, portatore di brutti pensieri? All’Idroscalo di Ostia, là dove è morto Pier Paolo Pasolini.

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