Francesca Giommi, “Una storia afro-italiana nella terra dei lumbard”, Il Manifesto, 23 ottobre 2020

 

«Quando i miei concittadini mi dicono “perché non te ne torni a casa tua?” è evidente che non gli sia mai passato per la mente che mi trovi esattamente nell’unico paese che abbia mai conosciuto: l’Italia. Il posto in cui sono nata e cresciuta. Non c’è altro posto sulla terra in cui vorrei essere. L’Italia è casa mia». Così Marilena, ragazzina afro-italiana cresciuta nella roccaforte leghista di Bergamo, descrive la complessità del crescere nera e italiana, e la lotta continua che la sua costruzione identitaria ha comportato in un paese dove il passo dalla Bossi-Fini ai decreti sicurezza è stato mestamente breve, in Negretta. Baci razzisti (Red Star Press, pp. 192, euro 16).

FACENDO SEGUITO al precedente Razzismo all’italiana – Cronache di una spia mezzosangue (Aracne, 2016), in cui si affrontava la questione dello ius soli, Marilena Delli Umuhoza torna a descrivere la sua personale esperienza di ragazzina nata in Italia da un matrimonio misto, dai capelli afro e la carnagione scura che parla lumbard e partecipa alle occupazioni studentesche con il solo ardente desiderio di «appartenere» ed «essere riconosciuta», nonostante la sua «apparente incongruenza».

Suo padre è un ex prete originario di Verdello, nel bergamasco, ex missionario in Africa, fedele sostenitore della Lega nonostante si fosse sposato con un’immigrata dopo aver lasciato l’abito talare. Sua madre, tutsi a cui due genocidi avevano devastato la famiglia ben prima del 1994, viene dal Rwanda. Lì era stata direttrice e insegnante di filosofia, chimica, algebra, letteratura e lingua francese, ma in Italia è solo una «negra» zoppa costretta ai lavori più umilianti, e la prima ad insegnarle che per essere belle è necessario schiarirsi la pelle, lisciarsi i capelli, sembrare bianche insomma. In casa le parla in un «italiano immigrato», un misto di parole francesi, bergamasche e rwandesi, ma la costringe a studiare l’inglese, perché per lei eccellere è la sola speranza.

Marilena cresce e sgomita per farsi strada tra i cori da stadio dei suoi compagni razzisti, la diffidenza dei parenti italiani che le regalano sacchi di stracci, i vicini ficcanaso e i drogati molesti del sobborgo operaio in cui vive, ma persino la maestra la umilia, ammonendola di non confondere l’italiano con «l’africano».

TRA I TANTI EPISODI di ordinario razzismo, la protagonista racconta che sua madre voleva chiamarla Maria Elena, come la regina d’Austria, ma poiché suo padre al momento della registrazione non riuscì a ricordarselo optò per un più semplice Marilena, rigettando insieme ai funzionari del comune il nome rwandese di Umuhoza, «consolatrice», col pretesto che avrebbe rivestito la bambina di ridicolo. Più di trent’anni dopo, quando l’autrice andò a sua volta a registrare sua figlia, il nome rwandese che avrebbe voluto affiancare a quello italiano fu di nuovo rifiutato, sintomo di una chiusura mentale ben più grave e radicata di quella dei porti, e ancora lungi dall’essere superata.

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