Adriano Angelini Sut, “Dal Canaro alla violenza di Roma”, Italia Oggi, 24 maggio 2018

Adriano Angelini Sut, “Dal Canaro alla violenza di Roma”, Italia Oggi, 24 maggio 2018

 

Era un freddo febbraio del 1988 quando Pietro De Negri, soprannominato poi dal quotidiano Il Messaggero «Er Canaro» per la sua attività di tosatore di cani (oggi si chiamerebbe, in maniera più aggraziata, tolettatore) compì la sua personale vendetta contro l’ex pugile dilettante Giancarlo Ricci.

Fu una storia che occupò i giornali per mesi. Il gesto di De Negri fu atroce. Questo ometto, piccolo e apparentemente innocuo, era riuscito a chiudere il pugile in una gabbia per cani, a tramortirlo, seviziarlo, torturarlo, mutilarlo addirittura e poi a ucciderlo.

Il corpo era stato gettato infine in una discarica della zona, la Magliana, mefitica periferia sud di una Roma criminale ancora non celebrata da film e libri. Il Canaro si era vendicato, diceva, per i soprusi subiti da parte del pugile, che era un bullo, che l’aveva umiliato a più riprese, in particolare davanti a sua figlia piccola. Ma la madre del pugile non credeva alla versione di De Negri; per lei, dietro quell’uccisione barbara c’era la mala, c’era la droga (di cui il figlio faceva uso), c’era la Banda della Magliana; il Canaro, per lei, era stata solo un’esca.

La vicenda oggi viene ripresa non solo nel film di Matteo Garrone, in uscita in questi giorni nelle sale, ma anche dal libro di Luca Moretti, Il Canaro (Magliana 1988: storia di una vendetta). Red Star Press. L’autore incarna Pietro de Negri e, in prima persona, ci racconta non solo l’accaduto, ma una parte della sua vita di emigrato dalla Sardegna a Roma, la sua storia con la moglie, il suo barcamenarsi fra lavoretti, spaccio, consumo di cocaina, e poi il rapporto con la figlia; la goccia che ha fatto traboccare il delicato vaso del suo strano, per certi versi ossessionato, rapporto con la sua vittima, quel pugile che, a poco a poco, si era trasformato nel suo aguzzino, molestatore, stalker. In una sorta di rapporto Master & Servant che rimanda al ferro, alle discariche, al vizio, alle periferie urbane e post industrializzate dei Depeche Mode così tanto amati dal protagonista nonché presenti, vivaddio, nel libro.

Luca Moretti calibra perfettamente atmosfere e tratto narrativo finto autobiografico (cosa difficile); plot avvincente e registro psicologico di un personaggio controverso ma umanamente ineccepibile. Un borghese piccolo piccolo, venti, trent’anni dopo. In una città che di occasioni per trasformarsi da pacato cittadino in mostro urbano vendicativo te ne dà a bizzeffe. E che, di anno in anno, di decennio in decennio, ha visto crescere i suoi miasmi delinquenziali, cialtroneschi, acuirsi i suoi tratti da sgualdrina, in perfida matrona, fino al caos odierno, in cui non serve nemmeno più fare la rivoluzione per instaurare l’anarchia.

Si è autoimposta come scesa dal cielo, in una sorta di mistica ascensione al contrario. Popolo, borghesia e quel che resta di un’aristocrazia papalina viziosa e strafottente, tutti dal cielo alla terra di nessuno come nel vecchio Miracolo a Milano di De Sica. Noi, per celebrare l’uscita di questo bel libro, con Luca Moretti ci abbiamo parlato, e gli abbiamo chiesto un po’ di cose.

Domanda. Prima di tutto: perché, Moretti, ti sei appassionato a questa storia?

Risposta. Prima di tutto c’è l’amore, c’è l’amore di un padre per sua figlia, per i suoi occhi. Ogni atto di amore può generare odio e quindi violenza. Poi ci sono le donne che animano questa storia, Madre Tortura, la madre del pugile, ma anche quella che io chiamo Valentina, la moglie dell’assassino. Sono le protagoniste femminili del romanzo: cantano in quella periferia romantica che prima o poi verrà spazzata via dalla furia del Tevere. C’è la vendetta e la soggezione, sono temi romantici anche questi.

D. La violenza e la vendetta sono temi profondamente letterari, soprattutto perché la letteratura aiuta a sublimarli. Tuttavia negli ultimi anni in particolare assistiamo a questa ipocrita corsa politicamente corretta a cancellare ogni forma di violenza e/o aggressività dal linguaggio (oggi lo chiamano Hate Speech) e dai comportamenti formali. In parallelo, assistiamo a un incremento del crimine e della violenza gratuite impressionante. Cos’è che non torna?

R . L’intelligenza sociale ha perfezionato delle forme coercitive del linguaggio a partire dai rapporti umani. Denudandomi, potrei dirti che ne pago lo scotto quotidianamente. Eppure questo ha depauperato la lingua riducendola spesso a un sistema di convivenza e di convenienza. La violenza non è muta, lo insegniamo ai nostri figli fin da piccoli, ce lo raccontano i cicli epici ma anche la Commedia di Dante, per fermarsi alle elementari.

Sulla violenza e sulla vendetta, su un drammatico fratricidio, è basata la storia della fondazione di Roma. Il contemporaneo ha semplicemente imparato a nascondere il sangue: ripulendo i linguaggi, relegandoli in forme marginali di narrazione, abbiamo d’altro canto perfezionato gli atti criminali, che si svolgono in luoghi e tempi non più raccontati pienamente, un cono d’ombra che è e deve essere lontano dalla civiltà.

D. Domanda secca. Roma è più o meno violenta rispetto al 1988?

R. Roma è sempre stata violenta e lo sarà sempre. Mi torna alla mente un saggio che studiai ormai venti anni fa all’università, credo fosse un computo del 1600 che metteva in fila le ferite da arma bianca nelle grandi città europee dove Roma figurava tra le prime. Penso ai grandi fatti di cronaca nera, da quelli prima della vicenda del Canaro fino a quelli avvenuti negli ultimi anni. Sono cambiate le periferie, sono cambiati gli attori, il movente. La violenza è rimasta.

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